L'infelicità araba
Un libro - manifesto, 90 pagine, con un significato immenso.
Scritto nel 2004, quasi come un testamento, da parte di Kassir (morto assassinato nella sua Beirut nel 2005) e rivolto agli arabi e a noi occidentali, allo stesso modo. Perché si può parlare, per stessa volontà/ambizione dell’autore, sugli arabi e per gli
arabi.
Un libro che è, prima di ogni altra cosa, un grido di libertà e democrazia. Questo libro, nelle parole della postfazione di Elias Khuri (intellettuale libanese di primo piano), "[...] ha la forza di un testamento e la forza visionaria di un inizio". Samir Kassir è stato ucciso da quell'infelicità araba che cercava di smantellare, anche attraverso l'adesione all'Intifada dell'Indipendenza libanese, di cui era esponente di primo piano. Sempre tornando a Elias Khuri, "Questo è il segnale più vistoso dell'infelicità araba. Che un giornalista, uno scrittore, sia messo a morte perché imputato di libertà."
Ma da dove arriva, e da cosa è alimentata, l’infelicità
araba – alla base dei conflitti e dell’instabilità dal mondo arabo? A questa
domanda Kassir da una risposta basilare, dal ruolo di vittima che gli arabi
vedono in loro. Ruolo di vittima alimentato durante il XX secolo che ha
cancellato di fatto tutte le conquiste fatte, nel corso dei secoli precedenti
(e nel XX secolo stesso). Ruolo di vittima che si è da un lato dimenticata le
grandezze dell’impero ottomano e dall’altro da questa grandezza è oppresso, in
un non riuscire più ad essere quello che si è stati.
L’infelicità araba è dovuta anche a colpe di noi
occidentali, che da quando siamo riusciti a mettere le mani nel mondo arabo,
con le occupazioni colonialiste, non le abbiamo più tolte (come invece è stato
fatto in altre parti del mondo). Essenzialmente per motivi geografici (posizione centrale nel controllo del Mar Mediterraneo e del Golfo Persico) e geologici (risorse naturali, specie dopo la scoperta
del petrolio). Di più, e qui si va alla ragione interna dell'infelicità, le risorse geologiche sono in mano a quegli stati (a
parte Iraq e Algeria) in cui l’evoluzione dell’epoca moderna (XX secolo) è
stata minore, o assente del tutto (Arabia Saudita). Quindi i più forti
economicamente spingono verso il basso la crescita e lo sviluppo
culturale/sociale del mondo arabo, loro che dominano i rapporti con l’Occidente
sono anche i più socialmente arretrati.
E ancora, sempre in merito a colpe
occidentali dell’infelicità, c’è l’idea di “esportare la democrazia” che non fa
altro che aumentare l’infelicità araba, incentivando la visione vittimistica
degli arabi verso se stessi e la cultura della morte.
L’infelicità araba deve essere sconfitta dagli stessi arabi. Partendo dalla lotta contro l'islam politico.
"[...] l'ascesa dell'islam politico [...] nasce anche
dal fallimento dello stato moderno e dell'egualitarismo delle ideologie
progressiste e, in questo senso, è assimilabile all'ascesa dei fascismi
europei. Di fatto, il comportamento sociale dei movimenti islamisti, una volto
tolto tutto il manto religioso che li riveste, mostra molte analogie con le
dittature fasciste. [...]
Questo per dire quanto illusorio sia credere che l'islam politico possa offrire
una via di uscita dall'infelicità araba, quando invece ne è uno dei fattori
costitutivi. "
I jihadisti (sulla cui storia, nascita e sviluppo, si
sofferma spesso nel corso del libro) gongolano in questo clima, sfruttando la
tristezza come un’opportunità per guadagnare il paradiso nella lotta. Non è la
corrente maggioritaria ma è quella con più forza suggestiva e l’unico ad
offrire una via d’uscita dal vittimismo (che nel contempo alimenta, per generare
altri martiri).
La SOLUZIONE è molto difficile e deve
venire da dentro.
Assumendo come insensato lo scontro di civiltà (secondo le tesi di Lévi-Strauss), l’insensatezza
del ritenersi superiori da parte di entrambi (l’occidente verso gli arabi e gli
arabi verso la decadente società occidentale), abbandonando pertanto il ruolo di vittime, rivedendo il XX secolo non solo come secolo durante
il quale si è manifestata l’oppressione ma anche quello delle conquiste
(teatro, cinema, poesia, romanzo, ruolo femminile).
Di fatto quello che Kassir
propone è l’abbandono dell’arabocentrismo negativo (tutto il mondo contro il mondo
arabo), che porta con se il concetto per cui il fine giustifica qualsiasi mezzo,
quindi non si deve più confondere il terrorismo con la resistenza. La riscoperta
di una storia comune, da entrambe le parti. Gli uni e gli altri fanno parte
della stessa umanità, della stessa società. La nascita di una società in cui
non ci deve più essere posto per lo sguardo sull’altro:
L'infelicità araba,
però è anche lo sguardo degli altri. [...] che impedisce la fuga e che, [...],
ti rimanda alla tua condizione ritenuta ineluttabile, ridicolizza la tua
impotenza, condanna a priori la tua speranza. [...] Bisogna essersi trovati per
una volta con le proprie inquietudini di fronte alle certezze dell'Altro, le
sue certezze su di te, per avere la misura di quanto ha di paralizzante uno
sguardo del genere.
Un libro per capire la realtà che ci circonda, per assumere
il punto di vista dell’altro e farlo nostro. Provando a toglierci gli occhiali nazionalisti
per mettere quelli del vero cittadino del mondo. Senza paura di ammettere la
bellezza di culture altre rispetto alla nostra e senza paura di ammettere
quanto ti quella cultura ci sia nella nostra.
Ed. Einaudi – p. 91 Euro 8,00
Consigliato a chi: vuole approfondire ed è interessato a
capire l’oggi.
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