#ComeProust: Bandiere sventolanti (in ricordo di Berlino e Stettino)

Fuori tira un vento pazzesco, ho dovuto portare dentro la fragola e la ginestra. Ho sempre avuto un rapporto strano col vento: non l’ho mai amato molto. Poi è arrivata Tarifa e qualcosa dentro di me è cambiato. Ho capito che il vento è il respiro della Terra. Che il vento porta con sé anche cose belle, come i kite nel cielo: puntini colorati che volteggiano facendoci credere di poter volare. 


Il vento mi fa venire mal di testa. Ma con un buon cappello posso passarci sopra (soprattutto avendo a portata di mano dell’ibuprofene!).

In questo momento se guardo fuori dalla finestra vedo tende e panni stesi ad asciugare, strenuamente aggrappati alla loro asta di appartenenza. E la mia mente vola subito verso alcune bandiere svolazzanti in giro per l'Europa.


La prima bandiera a cui penso è quella tedesca, nera - gialla e rossa - che sventola fiera sopra la cupola del Reichstag di Berlino.

A quella cupola ci sono arrivata dopo aver camminato - mica poco - dentro quella foresta urbana che è Tiergarten. Il mio primo giorno a Berlino. Cielo meravigliosamente azzurro. Il primo maggio. Un verde abbagliante e un prato morbidissimo. Piedi nell’erba. Passeggiare, respirare, riposare le orecchie. Poi abbiamo iniziato a sentire odore di wurstel sulla griglia, suoni di festa. Erano le bancarelle e gli stand delle associazioni dei lavoratori e dei sindacati, pronti per la festa del primo maggio. E mentre mi gustavo il primo curry wurst della mia vita (che meraviglia assoluta) eccola la bandiera sventolante. A mezzogiorno avevamo l’appuntamento per visitare il Reichstag e ammirare la città dalla cupola di vetro di Foster.


Ecco il mio imprinting berlinese. La città mi si è mostrata così. E l’amore a quel punto era già scoppiato, sarebbe solo cresciuto. Sarebbe cresciuto alimentato dalle mille sfaccettature berlinesi, dai suoi contrasti: la solennità di Mitte, l’antagonismo di Kreuzberg. Odore di wurstel e felafel. Mille lingue, cambiamenti difficili da comprendere o seguire. Una città viva, vitale che - come hanno detto molti prima di me - diviene sempre e non è mai. Uno stato mentale, più che un luogo vero e proprio. E ora ne avrei proprio tanto bisogno. 


Ultimamente mi capita di spaziare nel ricordo passando da Berlino a Stettino. Non so perché associo queste due città. Nella mia testa vedo Stettino come fosse una Berlino pre anni 2000.

Le potenzialità la città polacca le ha tutte: sgarrupata al punto giusto, ricca di storia e in divenire. Anche lì mi sono sentita più in uno stato mentale che in un luogo fisico. E se torno a Stettino con la mente non posso non pensare al parco Giovanni Paolo II e Kasprowicz. Ci si arriva lungo un viale elegante e alberato. Palazzi di fasti che furono, quando questo era uno dei porti più importanti d’Europa. Tante bandiere bianche e rosse, la statua di Giovanni Paolo II in una posa che sembrava giocare anch’essa col vento, facendola sembrare quasi viva. Religione e senso di Patria si intrecciano inesorabilmente in Polonia. E così, davanti alla statua del Papa, quasi la benedisse, ecco la bellissima statua all’impresa dei polacchi: un po’ una commemorazione al coraggio polacco e alla sua anima. Stettino è poi soprattutto altro. Una città in divenire, una città che non si è ancora rifatta il look (come Poznàn o Cracovia). Si mostra per quello che è (e quello che è diventata dopo le bombe, la distruzione), quel poco di vecchio che è rimasto è affianco a palazzi sovietici. Non c’è infighettamento, si mostra per quello che è e ti racconta la sua storia: fatta anche di cicatrici. La amo per questo, non cerca di piacere. Resta quello che è. 

Grazie Stettino, per insegnarci l’importanza di restare sé stessi.



E dopo questo viaggio nei ricordi di due città che amo per le emozioni che mi trasmettono e per ciò che significano, torno alla realtà. Il vento pare essersi placato: porterà pioggia? Ce ne sarebbe bisogno. E la pioggia dove mi porterà? 


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